Di Maddalena
Porcelli
L’ex Asilo
Filangieri, che sorge nel cuore antico di Napoli in vico Maffei, è un luogo di
cultura autogestito. Ufficialmente riconosciuto da una delibera comunale che
gli ha fornito tale status, è destinato alla fruizione collettiva e
all’iniziativa civica. E’ uno spazio di grandi fermenti, con calendari
fittissimi, che pullula d’iniziative: musica, danza, teatro, cinema, laboratori
formativi e tanto altro si susseguono senza sosta; una realtà inclusiva che
promuove aggregazione e sviluppa coesione sociale del quartiere e della città. La
nostra attenzione si è concentrata questa volta su un ciclo laboratoriale che
si terrà un weekend al mese a cura dell’Associazione teatrale Trerrote ed è
rivolto a tutti coloro che sono interessati all’esplorazione dell’espressività.
Di volta in volta Nicola Laieta, presidente e direttore artistico
dell’Associazione, verrà affiancato da un’esperta del settore. Quello appena
conclusosi, dal titolo “Pinocchio e lo specchio”, ha visto in scena, insieme a
un folto gruppo di aderenti, la psicofisiologa Diana Magri, esperta di
artiterapie, che utilizza e coniuga la danza, la voce e la creta. Attraverso la
creta si è potuto esplorare lo spazio della propria interiorità poiché, come
ella stessa afferma “il tatto è il primo canale di conoscenza della propria coscienza,
ma anche dei propri limiti o confini corporei e della relazione con l’altro”. Una
ricerca incentrata su quello che lei definisce come “stile di contatto”, quel
modo in cui ognuno entra in diverso modo in relazione con il mondo. L’utilizzo
della creta ha richiesto in principio un approccio di tipo individuale, laddove
ognuno è stato invitato, attraverso semplici esercizi, a esplorare la materia:
trattenerla, sostenerla, cederla, lasciarla andare. E ancora: premerla, graffiarla,
accarezzarla… Si è poi passati a un rapporto di due che mediante un percorso
iniziatico basato sul movimento e lo sguardo, ha determinato la formazione, per
scelta volontaria, di coppie che hanno intrapreso un comune esperimento
d’indagine di uno stesso pezzo di creta, dando vita a forme diverse, immaginate
e create, per essere in seguito descritte, analizzate e raccontate. Tante
immagini, ognuna osservata da varie angolazioni, mutanti a seconda dei punti di
vista e dei modi di sentire di ognuno laddove, come sostiene Nicola Laieta “Ognuno
ha una maniera particolare di mettersi in relazione con il mondo, perché il
teatro è innanzitutto lo spazio della relazione e al coinvolgimento emotivo
sempre segue l’analisi sul cosa, come e chi ci coinvolge”. Attraverso la
manipolazione della creta si dà forma alla rappresentazione di sé, ma nell’esplorare
la materia ci si troverà a percepire il
sé attraverso la relazione con l’altro. E’ una relazione con-creta e concreta,
ha amato ripetere Diana Magri, che con quel gioco di parole ha riempito di
significati l’essere e l’esserci nel tempo di quei tre brevi-lunghi-dilatati
giorni vissuti insieme. Perché lo si fa,
chiedeva, per ogni azione richiesta. La risposta, credo, è che non c’è un
interesse che oltrepassi i sentimenti. Va da sé il comprendere che al di fuori
di quello spazio protetto, ma soprattutto condiviso, c’è un mondo esterno la
cui principale preoccupazione è la produzione economica, per la quale tutto
considera in base all’utile che ne deriva e per cui tutto vende, persone,
valori, sentimenti e dove risulterà difficile, se non impossibile, la
costruzione dei processi d’identità personale. Ed è questa la ragione per la
quale nel mondo l’individuo risulterà scisso, perché non sarà messo in condizione
di realizzare le sue qualità autenticamente umane: amore, pensiero, sentimenti,
identità di sé. Nello spazio protetto di un teatro si è, al contrario, inclini
alla condivisione perché, come puntualizza Nicola Laieta “un racconto ha sempre
dei protagonisti, dei personaggi in cui identificarsi o rifiutare che ci
offrono la possibilità di scegliere
quale persona si vuol essere”. La tre giorni si conclude con l’esperimento più
emozionante: il dialogo tra la scultura e lo scultore: la prima si lascerà esplorare,
toccare, posizionare nello spazio; all’azione seguirà il compito d’immaginare
un dialogo tra l’artefice e la materia plasmata, nel quale entrambi
dichiareranno le proprie impressioni. Si gioca dunque, ma sul serio, su un
doppio binario, quello personale e quello di relazione ma che in fondo sono un
unicum, come risulterà chiaro alla fine del percorso, dove l’amalgama di un
gruppo, i cui componenti erano per lo più estranei gli uni agli altri, si
ritroveranno predisposti alla relazione e addirittura ad abbozzare una messa in
scena comune. Se c’è una cosa che è fondamentale rilevare è dunque la relazione
come necessità, come vincolo non autoritario, che è al contempo una
responsabilità dentro la quale si configura la libertà, il riconoscimento della
propria umanità che ha origine proprio nella relazione comunicativa.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Commenti
Posta un commento